Crisi di mezza età nel lavoro

Alcune sere fa ad una cena tra amici ci domandavamo chi, all’interno del nostro network, ricoprisse il ruolo di CEO o Dirett* Generale, al di sotto dei 40 anni e non all’interno dell’azienda da lui fondata o di famiglia. Dopo momenti di incertezza, il numero di persone trovate era marginale rispetto alla grandezza del network. 

Da questa semplice domanda emerge prepotentemente la questione dell’età e della crisi di mezza età, che rappresentano uno degli argomenti più dirimenti a cui viene (troppo spesso) dedicata poca importanza.

Fino a qualche decennio fa l’età era l’equivalente della saggezza. Andare in pensione era il passsepartout per una nuova vita. I nostri nonni erano guardati come maestri, un rispetto nei loro confronti doveroso perché reppresentavano l’emblema di una vita ricca di esperienze. Pertanto non c’era una crisi di mezza età, perchè il giro di boa e ancor di più la vecchiaia erano orpelli da mostrare, piuttosto che stigmi da nascondere o modificare artificiosamente. Alberi secolari dalle radici robuste. Oggi gli anziani sono considerati invece un peso per la società, in termini di welfare, e non certo una risorsa. E uscire dall’età lavorativa si traduce di fatto in una dichiarazione di inutilità.

Questo nostro modello di carriera innesca un meccanismo perverso. Ambisce a farti raggiungere i ruoli apicali in età avanzata, ma più fatichi a conquistarli e meno sarai incentivato a lasciarli subito perché vorrai goderti l’ebbrezza del potere più a lungo possibile. Anche perché, è difficile trovare  gratificazioni simili nella terza età, quando sei già in pensione, se sei legato ad un sistema sociale che basa il compimento del successo all’interno del ciclo produttivo.

Parlo di adrenalina, di una dimensione dell’Io che si identifica nel ruolo lavorativo. Togliersi da quel ruolo può rendere insopportabile il peso di sentirsi anziano, qualcosa di opprimente per sé stessi in termini psichici e per la società in termini economici.

AGE WASHING

Da questo retroterra, è evidente che l’età assume più le vesti di una categoria sociale, più che biologica. Questo processo diventa perciò un modo per inasprire una disparità generazionale, piuttosto che generare una collaborazione sana in grado di mantenere un equilibrio intergenerazionale per convivere tutti e al meglio.

La percezione di un problema sollevato da una semplice domanda tra amici, trova una prima base di certezza in una ricerca della Luiss Business School: “Dal 2003 al 2019 l’età media di presidenti e CEO delle società quotate in Borsa Italiana è cresciuta significativamente, di quasi due anni nel primo caso e di poco meno di quattro nel secondo. Nel 2003 l’età media dei presidenti era di 60,6 anni, quella dei CEO di 52,6.”

Da una parte abbiamo gli slogan per dare spazio ai giovani, dall’altra nel concreto avviene esattamente il contrario. Quindi gli slogan diventano un age washing, al pari del green washing, per dimostrare una finta apertura ai giovani, mantenendo al contempo un modello che, nel ciclo produttivo odierno, sposta avanti l’età. 

Ciò che sta accadendo è che le generazioni più mature non sono disposte a cedere il passo ai giovani proprio perché non sono disposte ad uscire dal ciclo produttivo. Un’uscita percepita socialmente come uno scarto e non, come il passaggio a un’altra condizione. Houellebecq in “La possibilità di un’isola” preannuncia “un’umanità artificiosa, frivola, che non sarà mai più toccata dalle cose serie né dall’umorismo, che vivrà fino alla morte in una ricerca sempre più disperata del fun e del sesso; una generazione di eterni kids”. Ecco, il nostro modello ci spinge a trovare modi per apparire sempre più giovani e attivi, aggrappati all’illusione dell’eterna giovinezza fino a quando questa non diventa insostenibile.

La vecchiaia e la pensione rientrano all’interno della macrosfera dell’età che, in una società narcisistica, assume sempre di più una rilevanza di termini di status sociale ed estetici. 

Tuttavia la saggezza accumulata nel corso di una vita ha un valore e sta proprio nel poterla tramandare alle generazioni future. È una forma di restituzione, forse l’unica opportunità per sopperire al peso della fine.

Purtroppo la questione dell’età non viene affrontata con l’importanza che invece meriterebbe. Robert Neil Buttler, medico e psichiatra statunitense, nel 1969 introduce per la prima volta il termine “ageism” per parlare dei pregiudizi in base all’età. Una discriminazione che ha anche pesanti conseguenze psicologiche: l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha stimato che circa 6,3 milioni casi di depressione nel mondo sono attribuiti solo all’ageismo, figlio di un approccio culturale minato da tutti quegli stereotipi sugli anziani e il loro ruolo nella società. L’ansia di invecchiare è pertanto direttamente proporzionale al grado di ageismo nella società, una discriminazione diffusa e silenziosa che spacca gli equilibri intergenerazionali. Eppure il mix generazionale dovrebbe essere una risorsa, quella capacità di valorizzare una forza multi-generazionale amalgamando abilità, competenze e attitudini potenzialmente diverse. 

Un approccio globale alla gestione dell’età, una cross fertilization tra le generazioni che unisce, invece di separare!a

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Un abbraccio! Marco.