Crescita personale: conoscersi per elevarsi

Da circa due anni mi sono avvicinato al trekking ad alta quota. Non avevo mai considerato questa esperienza essendo nato a due passi dal mare.

Una delle cose più importanti che ho imparato andando in montagna è la gestione delle proprie forze, per tragitti che possono essere più o meno lunghi. Un salire e scendere, spesso preso come metafora di vita (anche lavorativa), che è bene imparare a rispettare doverosamente quando si va in montagna.

La bellezza della montagna, e quindi anche della vita, è quella di salire ad alture da cui guardare orizzonti mai visti, imparando a respirare. Sì, proprio a respirare, perché l’acclimatamento quando sali o scendi da alte quote è proprio quella procedura utilizzata dagli scalatori che ti permette di abituare il corpo alla carenza di ossigeno. Acclimatarsi significa esporsi gradualmente ad altitudini diverse; vuol dire ponderare i propri passi perché l’aria diventa più rarefatta, imparando a gestire il proprio respiro (pertanto le ansie, le parole da dire ai propri compagni di viaggio, e in generale l’atteggiamento da avere in circostanze che diventano sempre più estreme man mano che si sale, con le forze che vengono meno).

Noi, in fin dei conti, siamo le nostre circostanze che, se create adeguatamente, ci permettono di salire in montagna o nella vita professionale. 

Qualche giorno fa ho avuto una piacevole chiacchierata con un CEO di una grande multinazionale. Una persona che a 50 anni ha rimesso in discussione completamente la sua vita, dopo essere riuscito per la prima volta dopo anni a trascorrere del tempo “rilassato” con la famiglia e il figlio in vacanza, trovando quelle affinità elettive che il lavoro aveva completamente prosciugato. Una consapevolezza che l’ha portato a dimettersi una settimana fa. Le grandi dimissioni sono proprio figlie della mancanza di respiro.

Anche se la montagna ci insegna a fare un passo alla volta, con fatica e sacrificio, i recenti modelli social (dal self help, al supporto di startup, ai metodi per fare carriera o successo) insistono con candore sul fatto che le apparenze “vincenti” siano più importanti dei risultati e le attribuzioni più delle realizzazioni. Oggi nulla ha più successo dell’apparenza del successo.

È accaduto nuovamente con Forbes, dove il boss di FTx ed Elizabeth Holmes sono finiti in copertina come paladini del successo estetico e mediatico, per poi finire su altri quotidiani come millantatori di un futuro più prospero ormai in disfatta.

Purtroppo quando il futuro si fa minaccioso e incerto si pensa che solamente gli sciocchi rimandano a domani il divertimento che possono avere oggi. Dopotutto viviamo in un’epoca di aspettative decrescenti, dove l’inflazione provoca l’erosione di investimenti e risparmi, l’advertising indebolisce l’orrore per l’indebitamento invitando sempre di più le persone a comprare ora e pagare in seguito.

È la conseguenza del profondo mutamento del senso del tempo di oggi, che ha trasformato le abitudini lavorative, i valori e la definizione del successo.

Stephen Bertman ha coniato i termini «cultura del momento» e «cultura della fretta» per definire il modo di vivere nell’era moderna. La nostra vita è diventata un’esperienza cumulativa dove vige la tirannia del momento. E il tempo guadagnato grazie alla tecnica non ci basta più. Una funzione additiva che spesso si traduce in un flusso interminabili di eventi di cui si fatica a ricordare il precedente.

Tuttavia, la spinta al progresso si scontra con i nostri limiti naturali. Schiacciati da ritmi di vita sempre più accelerati, le persone non respirano più. Complice anche un’idea di leadership obsoleta che fatica a tenere il passo la rivoluzione culturale del lavoro in atto. Manager in difficoltà di leadership che non trovano (o non colgono) le occasioni di formazione. Lo rivela un recente sondaggio compiuto sui direttori del personale da Richmond Italia in collaborazione con Nomea, marchio di consulenza e formazione.

Il sondaggio riporta molti dati interessanti: il 96,5% del campione dichiara che servono maggiori investimenti nelle competenze dei manager, tuttavia solamente il 17,2% mette l’accento sulle competenze tecnologiche. La maggior parte, il 59,7%, riconosce una difficoltà di gestione della leadership in questa nuova relazione di lavoro ibrida. Manager autodidatti, non formati e spesso insoddisfatti (quindi incapaci di soddisfare). L’ 87,5% afferma che ha dovuto imparare nuove competenze per gestire le nuove dinamiche di relazione (eppure solo il 3,4% ha fatto corsi specifici). Forse sta tutta qui la chiave della questione, rendersi conto di non respirare, di non essere efficaci nella leadership, senza però fare veramente qualcosa di decisivo per formarsi, come singoli e come cultura aziendale. Il risultato? L’ipossia, ovvero la carenza di ossigeno che non consente di respirare, un voler raggiungere nel lavoro vette sempre più alte senza essere adeguatamente preparati e guidati.

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